"Il cielo è di tutti:
se devi vivere
vivi libero,
altrimenti muori
come gli alberi, immobile"
Non so se si può definire viaggio prendere un treno da Bologna a Venezia, soprattutto in confronto a quello, vero, proiettato sullo schermo della Biennale.
Di sicuro mi è sembrato di andare più lontano del Lido, di toccare con la mano e col cuore Paesi lontani, storie, persone. Ho ballato sotto le bombe in un campo profughi in Siria, ho visto passare, dietro la patina lucida degli occhi, i ricordi di un naufragio al largo di Lampedusa; ho sentito il cuore saltare qualche battito, su un treno a cavallo tra Danimarca e Svezia, ho cantato sulla riva del mare del nord, in una lingua che non conosco, il dolore che unisce migliaia di storie diversi ma simili, storie dimenticate di sogni affondati nel Mediterraneo.
'Io sto con la sposa', storia vera di un finto corteo nuziale che ha portato un gruppo di profughi palestinesi e siriani dall'Italia alla Svezia, è sbarcato a Venezia grazie al contributo di migliaia di persone che hanno partecipato al crowdfounding più riuscito della storia (2.617 produttori dal basso da 38 Paesi diversi; anch'io, fiera di essere tra di essi, nei titoli di coda). E' il trionfo di un'idea sui confini invisibili ma invalicabili degli Stati europei, che dicono di voler accogliere i profughi, ma di fatto ergono barriere e dividono il mondo in 'clandestini' e non, quando le uniche barche sono quelle che affondano ogni giorno, ogni ora, tra la Libia e Lampedusa, nell'indifferenza generale. Ma non si può restare indifferenti davanti a un corteo di centinaia di spose in abito bianco, un messaggio da parte dei registi e del pubblico che sfonda lo schermo e ricorda al mondo che si può ancora, si deve, combattere per un'idea, per l'umanità, per la solidarietà, per l'incontro tra persone e storie, tra un giornalista italiano e un poeta siriano, tra un padre e un figlio, una coppia di sposi, una ragazza che balla sotto le bombe con la musica nelle orecchie per non sentire il boato della morte che piove dal cielo.
Sono arrivata a Venezia con un'amica, entrambe in abito bianco, per ribadire, nel mio piccolo atto di disobbedienza civile, che si può. Si può essere diversi dai politici che parlano di numeri e statistiche e piani di respingimento, da un'Europa schizofrenica che fa promesse come un unico organismo, simbolo di dialogo, progresso e coordinazione, ma poi attua la legge della giungla, ognuno pensi per sé, ognuno conti i suoi morti e lavi il sangue entro i suoi ben definiti confini.
Sono arrivata a Venezia e, causa un ritardo di 10 minuti per una mal riuscita coincidenza tra treno e vaporetto, sono rimasta al di là di un altro, ma ancora più ironico confine: l'ingresso del cinema. Con altre 10 persone, tra cui una coppia in arrivo dall'Argentina, abbiamo aspettato 30 minuti per poter entrare, perdendo di fatto metà della proiezione. Non voglio fare polemica o lamentarmi; il nostro colpevole ritardo e l'inflessibilità degli addetti di sala mi hanno solo fatto notare una strana ironia: che alla proiezione di un docu-film per la libertà di movimento e l'abolizione dei confini, ne sia rimasto proprio uno, per 30 minuti invalicabile, a pochi metri da dove la pellicola stava girando sullo schermo, i nostri nomi nei titoli di coda. E per un attimo abbiamo, noi 10 'respinti', provato appena un centesimo, anzi un millesimo, delle emozioni e dello sconforto che i protagonisti del film e dell'avventura devono aver provato ad ogni dogana, su ogni confine, attraverso l'Europa. Un ragazzo di colore in abito di gala ha preso la rincorsa e scavalcato due cancelletti prima di essere atterrato dai bodyguard. Continuo a sperare che fosse una messa in scena, ma non ne sono più così sicura.
Anche se non sono riuscita a vedere la proiezione nella sua interezza, ne è valsa la pena. Mi rifarò quando 'Io sto con la sposa' uscirà al cinema. L'importante era esserci. Esserci durante i 17 minuti di standing ovation e applausi, durante la commemorazione dei morti del Mediterraneo sulla spiaggia davanti all'hotel Excelsior. I registi Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry hanno rischiato 15 anni di prigione per favoreggiamento di immigrazione clandestina e traffico di esseri umani, così come la sposa, Tasnim, un passato in un campo profughi e ora passaporto tedesco. Abd, Manar, Alaa, Abdallah, Ahmed e Mona rischiano di tornare in un paese in guerra vedendo sfumare la speranza di un futuro. Tra gli abbracci commossi e i sorrisi di migliaia di persone che hanno scelto da che parte stare, davanti a una marea bianca di spose, un 'white carpet' senza precedenti, uno dei protagonisti mostrava alla platea un bimbo, nato da poco. Nato 'regolare', libero. In pace.
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