1. Koi no Yokan 恋いの予感
Letteralmente significa presagio di un amore. Che non è un colpo di fulmine, ma la sensazione che succederà qualcosa, che la passione ci travolgerà, magari non ora, ma tra poco. E' l'anticipazione che sale mentre guardo scorrere dal finestrino del treno (che mi porterà dall'aeroporto al centro di Tokyo), i sobborghi della prima periferia, le casette basse, le stradine tutte uguali, i grovigli di cavi elettrici così simili alle immagini dei manga che leggevo da piccola, ma più belli, più strani, più reali.
Ma è anche il senso di smarrimento che mi assale mentre pregusto la conquista di un sogno: davanti alla stazionei di Shinjuku, il posto più caotico e labirintico di Tokyo, giravo su me stessa a 360 gradi per meglio assorbire l'inizio di un'avventura che ho aspettato a lungo e che pensavo sarebbe rimasta nell'iperuranio dei desideri. Spiando i nativi correre da una parte all'altra, mi sembrava di essere in un acquario: a volte ero la spettatrice, a volte il pesce strano (o straniero) osservato con cortese curiosità da migliaia di occhi a mandorla.
2. Yoko meshi 横飯
Ovvero un pasto consumato in orizzontale. Che starebbe, a sua volta per "il disagio dell'esprimersi in una lingua straniera". Cosa per me quintuplicata, dal momento che del giapponese non so altro che 5 parole (salve, grazie, dove..?, dritto, destra e sinistra, più o meno). E che i giapponesi non parlano quasi una parola di inglese (e quando lo fanno, sono incomprensibili). Nonostante tutto la comunicazione è stata incredibilmente buona, frutto della improbabile ed esplosiva combinazione del talento tutto italiano del 'farsi capire ovunque' con l'estrema cortesia nipponica. Perché è vero che gli abitanti del Sol Levate diffidano degli stranieri e li tengono a distanza, ma sempre e comunque con squisita gentilezza.
Solo in Giappone inoltre è possibile 'parlare senza parlare'. Mi è capitato alla stazione di Tokyo, davanti a uno degli armadietti automatici per borse e bagagli, sprovvista dei 500 yen richiesti in monete. Mi rivolgo a un ragazzo giovane, sulla ventina, che aspetta qualcuno a fianco a me. Provo a interpellarlo in inglese, inutilmente. Indico la bnconota da cambiare, il simbolo delle monete sull'armadietto, sfrego indice e pollice nel gesto universale della moneta sonante. Mi capisce. A sua volta si guarda intorno, mi indica qualcosa. Vedo solo folla, non capisco. Giochiamo ai mimi per qualche minuto, finché non mi fa segno di seguirlo e mi guida alla biglietteria degli autobus. Si mette in fila con me, aspetta il suo turno, dice qualcosa alla cassiera che subito mi allunga 500 yen in moneta in cambio dei miei cartacei. Senza fare una piega, mi riporta dove mi aveva trovata. Ho continuato a inchinarmi finché non è sparito nella marea umana di Shinjuku.
3. Aware あはれ
Un’esclamazione per esprimere il proprio crogiolarsi nel sentimento del mono no aware, cioè la sensibilità verso tutto ciò che è effimero, caduco, l'empatia verso tutto ciò che trasmette un senso di impermanenza. Un perfetto sunto della bellezza dei giardini giapponesi, dove ogni cosa è teatralità, disordine studiato e rigore poetico. La natura giapponese è un paradosso, una contrapposizione continua tra realtà e imitazione, perché l'uomo è ben conscio di non poter domare la natura, ma solo imitarla e incorniciarla.
Lo dimostrano bene i giardini di Kinkaku-Ji e Ginkaku-Ji, a Kyoto. Uno immerso nella natura, nel verde su cui spicca l'opulenza dell'oro della pagoda, l'altro studiatamente scarno, essenziale, con il suo deserto di ciottoli arati, i massi sferici e il sentiero che si inoltra tra le rigorose canne di bambù.
4. Komorebi 木漏れ日
Poetico: la luce del sole che filtra tra gli alberi. E' il concetto dominante del mio tempio-tour a Kyoto. Un'unica passeggiata lungo il Sentiero del Filosofo, che a nord-est percorre i santuari più importanti della città lungo le sue verdi colline. Tra i più suggestivi c'è quello della dea Kannon, dea della pace che sovrasta un altare dedicato alle vittime della seconda guerra mondiale e dell'atomica. La sua figura bianca è così grande e in pace, stagliata contro il cielo limpido, da scuotere gli animi anche più del gigantesco Buddha di Nara.
E' invece una luce diversa, quella che filtra tra i Torii arancioni che dal santuario di Fushimi-Inari si diramano per tutta la montagna, alle porte di Kyoto. Un tramonto continuo, una luce da un lato calma e trascendentale, dall'altra potente come il sole. Eppure è la stessa luce che a fatica scioglie la neve tra le coloratissime pagode di Nikko, o che disegna le forme del gigantesco Buddha di Nara, circondato da daini sfacciati e paffuti quanto lui.
5. Tsundoku 積ん読
La mia parola preferita: significa comprare una montagna di libri e lasciarli a marcire perché non si ha mai tempo di leggere. Sono una specialista in questo tipo di sport e in Giappone l'ho applicato non solo ai libri, ma a tutto. Oltretutto Tokyo è la capitale del gadget inutile ma ingegnoso. Ci si può trovare tutti quegli oggetti di cui non si sentiva il bisogna, ma la cui genialità è indiscussa. Indi per cui vanno istantaneamente comprati. Come il mini blocchetto per ricordarsi i verbi o il volta-pagine in gomma, ovvero un ditale di lattice con alcuni rilievi da mettere sull'indice per non doverlo inumidire con la lingua ogni volta che si vuole sfogliare un libro.
Oppure tutta la serie di biglietti di auguri, rigorosamente divisi per occasione d'uso (ce ne sono anche per la perdita della verginità) , nonché tutte le riproduzioni in plastica di pietanze giapponesi, la carta igienica con il sudoku sopra, il tovagliolo da viso per non sporcarsi con il risucchio degli spaghetti, l'ombrello per la punta delle scarpe e tanto altro. Un negozio stupendo, per quanto riguarda la cancelleria, è Itoya, a Tokyo, nel quartiere di Ginza. Una mega-cartoleria di 7 piani, di cui due solo per i biglietti di auguri e uno per i pennelli e i timbri personalizzati. Tutto il resto è genialità in vendita.
6. Kouitten 紅一点
Questa parola sta a indicare l’unica donna in un gruppo formato da soli uomini. Ovvero, una giornata tipo nel quartiere di Akyhiabara, l'anima tech e mangaka di Tokyo. Tappa obbligatoria per un'(ex ma non troppo) amante dei fumetti come me. Ma la predominanza maschile non era nei miei pensieri mentre andavo in completa fibrillazione nel Gundam Cafè, o mentre compravo montagne di fumetti per me illeggibili nel negozio di manga a 7 piani che ho preso d'assalto, girandolo per un'intera mattinata.
Certo non pensavo di trovare così tante mie simili nel reparto hentai (porno) per signore di suddetta libreria. A parta l'assoluta noncuranza e assenza di vergogna che regnava nell'aria, nonostante certe immagini farebbero impallidire Rocco Siffredi, mi ha colpito un'altra cosa. I manga 'per signore' trattavano quasi esclusivamente (con tratti più delicati e ampio spazio per dialoghi e storia) di amori omossessuali. Sto ancora cercando una spiegazione.
7. Bakku-shan バックシャン
Una bakku-shan è una donna bella solo ed esclusivamente se vista da dietro. Mi spiace dirlo, ma il riferimento a geishe e maiko è obbligato. Infatti, casualmente, la maggior parte delle foto fatte a queste signorine, sono tutte da dietro, dove troneggia l'obi annodato in modi artistici e complicati. E' davvero suggestivo vedere ondeggiare questi trionfi di stoffe colorate e maniche che toccano il suolo per i viottoli delle colline di Kyoto, alle porte del grande tempio di Kiyomizu-dera. Ho incontrato alcune di queste creature anche per le strade di Pontocho, il quartiere del 'mondo fluttuante' più famoso di Kyoto, con i suoi piccoli ponti, le case da tè che si affacciano sui canali e i (carissimi) ristoranti tradizionali in legno.
Molto 'affascinanti' anche gli attori dell'opera giapponese, il teatro Kabuki. Grazie a un amico in loco sono riuscita ad acquistare un biglietto, il mio ultimo giorno a Tokyo. Da un lato, esperienza spettacolare (c'era la traduzione istantanea in cuffia), dall'altro... diciamo che tutti gli attori in scena, anche quelli che recitano parti femminili, sono uomini. Decisamente bakku-shan.
8. Natsukashii 懐かしい
Questa è complicata. E' un aggettivo e di fatto significa avere nostalgia, ma non in senso negativo. Indica una piccola cosa che improvvisamente ti porta indietro, senza rimpianti, ma ricordando e apprezzando i tempi andati. Bello, vero? Ecco, sono io intenta a ricordare i trascorsi da appassionata di manga in ogni passo, in ogni sguardo incontrato nei 10 giorni passati in Giappone. Sono io mentre mi sdraio sul mio primo futon nel Ryokan (locanda tradizionale) di Kyoto. Mentre sono a mollo in un bagno pubblico circondata da nonnine e bambini che si insaponano scrupolosamente. Mentre mi lavo nei santuari shinto, lancio monete e batto le mani tre volte davanti agli altari dei templi. Mentre mi rifaccio gli occhi (e il portafoglio) nel negozio di Totoro a Tokyo, a fianco del grande tempio Senso-Ji.
Mentre mi inoltro per le stradine di Shinjuku viste nei fumetti, così come nelle periferie con i grovigli di cavi elettrici che serpeggiano tra le villette tutte uguali e i muri da labirinto. Mentre mi inchino e parlo le 5 parole di giapponese che so. Mentre annuso i fiori di ciliegio appena sbocciati e mi levo le scarpe davanti a ogni porta. Mentre accarezzo i daini di Nara. Mentre tocco la zampina del cane Hachiko, vergognandomene subito dopo. Mentre sono in coda assieme a ragazzine in divisa da marinaretta per il mio talismano. Mentre sbircio sacedrotesse in bianco e rosso a Tokyo e geishe variopinte a Kyoto. Mentre ringrazio, le mani giunte, l'incenso che disegna traiettorie sconosciute nell'aria, un mondo alieno intorno a me, per essere così incredibile ed esserlo rimasto anche dal vivo.
***
Questa parola andava messa solo per il suo suono... 'evocativo'. Altri non è che l'abbinamento più strano ma buono della cucina giapponese. Trattasi di cotoletta adagiata su una ciotola di riso, il tutto condito con uova e condimenti vari, a seconda della zona. Più che il sushi, comunque buonissimo e per nulla caro, è stato il vero piatto forte del viaggio. Facilissimo da trovare, dal centro di Tokyo alla locanda più sperduta nella neve di Nikko (condito con il miso, in questo caso), è un'ottima alternativa calda e sostanziosa alla ciotola di udon (spaghettoni in brodo, da mangiare il più romorosamente possibile) e al mix di Toriyaki (spiedini di carne conditi con salse speciali e venduti in mini chioschi ambulanti).
Il cibo giapponese meritava un capitoletto a sé. Soprattutto le pietanze da sempre ammirate nei manga e mai assaggiate (perché non previste nei ristoranti giapponesi nostrani). Alcuni esempi:
- okonomiyaki: frittata alla piastra con vari condimenti, cotta direttamente sul tavolo e apprezzata con il mio amico Kei
- dango: palline di soia gommosine e dolci, ricoperte di sciroppo, a sua volta di soia, infilate in spiedini. Il mercato davanti al grande tempio di Tokyo Senso-Ji ne è un tripudio
- onigiri: triangolino di riso ricoperto da una foglia di alga nori e ripieno delle più svariate cose
- ramen: piattone unico a base di noodles immersi nel loro brodino e conditi di ogni ben di dio a scelta. Obbligatorio assaggiarlo, specie nei chioschi di legno sotto il ponte della stazione di Ginza, un luogo in netto contrasto con il quartiere più tecnologico di Kyoto, tutto grattacieli e insegne dei più grandi marchi
- shabu-shabu: fonduta di carne scelta e verdura da immergere nell'olio bollente
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